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Cybersicurezza: quanto siamo esposti?

10 nov 2023 | 3 min di lettura | Pubblicato da Maria P.

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I nostri dispositivi mobile non sono fortezze inespugnabili. Anzi. E chi lo crede espone se stesso e i suoi soldi a un grosso rischio. Ottobre è stato lo European Cybersecurity Month, il mese della sicurezza cibernetica europea: a promuovere l’iniziativa l’Agenzia dell’Unione europea per la cybersicurezza (Enisa), che nella sua campagna di sensibilizzazione ha acceso i fari sul fenomeno del “social engineering”.

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Che cos’è il “social engineering”?

Come spiega Yves Kramer, senior investment manager di Pictet Asset Management, si tratta dell’“insieme delle tecniche utilizzate dai cybercriminali volte a convincere un obiettivo a rivelare informazioni specifiche o a eseguire azioni per motivi illegittimi”.

Come si muove il cybercriminale?

Il cybercriminale fa leva sull’empatia e sulla compiacenza per conquistare la fiducia e l’accondiscendenza della vittima. Fa quindi appello all’urgenza di una sua richiesta (più o meno smaccatamente economica) e loda la capacità della vittima di risolvere il problema. Avete presente le truffe affettive, no? Il meccanismo non è dissimile. In questo caso, l’obiettivo è ottenere informazioni (dati per l’accesso al conto, per esempio) oppure soldi, per poi sparire.

Il problema è che spesso, in modo inconsapevole, condividiamo dai nostri smartphone informazioni sulla nostra sfera personale: ci esponiamo attraverso i social, ma anche – come sottolinea Kramer – tramite applicazioni bancarie, portali sanitari, cassetti fiscali o servizi di messaggistica.

Una montagna di dati personali più o meno consapevolmente condivisi, senza una giusta e opportuna preoccupazione sul tema della sicurezza.

Anche le aziende sono sotto attacco

Non solo privati, però. Come evidenzia in una recente nota S&P, gli autori degli attacchi prendono di mira anche le aziende, in special modo quelle di settori che basano la loro attività su dati estesi e sensibili sulla clientela o i settori che forniscono servizi critici, come l’informatica, le telecomunicazioni, i media e l’intrattenimento e la vendita al dettaglio. La verità, però, è che nessun settore è immune dagli attacchi informatici.

Le analisi di S&P evidenziano come i “data breach” (le violazioni dei dati) e gli attacchi “ransomware” (mediante installazione di un software malevolo che blocca ogni cosa e per sbloccare si chiede un riscatto) rappresentino le categorie più comuni di incidenti informatici.

Non sempre è colpa del singolo dipendente

Sebbene gran parte degli attacchi informatici siano causati dal cosiddetto “phishing” o da errori dei dipendenti, ci dice S&P, molte violazioni sono dovute ad attacchi contro fornitori terzi per via di falle nella loro sicurezza. Questo porta in primo piano la necessità per le organizzazioni di attrezzarsi di più e meglio contro il rischio informatico proveniente, per l’appunto, da terze parti.

E noi comuni mortali, cosa possiamo fare? È presto detto. A parte attrezzarci tecnologicamente, dobbiamo sempre fare molta attenzione:

  • alle informazioni personali che condividiamo in rete;
  • a cliccare i link dei messaggi che ci arrivano via posta elettronica o via sms;
  • a rispondere ai messaggi che ci arrivano via posta elettronica o via sms (in uno recentissimo, un inesistente figlio di chi vi scrive recitava “ciao mamma, mi è caduto il telefono nel water, questo è il mio nuovo numero, puoi mandarmi un messaggio su Whatsapp?”, e ovviamente non è stato inviato alcun messaggio via Whatsapp);
  • a condividere i dati di accesso ai nostri account bancari.

Insomma, la formula è la stessa di sempre. Ed è, per lo meno, un buon inizio.

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